Le lezioni del 2020 per il mondo IT: verso un “vero” smart working.

Tra i tanti cambiamenti imposti dal 2020, l’introduzione di modalità
di lavoro “flessibili” è uno tra i temi che ha trovato maggiore
attenzione nell’opinione pubblica. È opinione comune, infatti, che
dopo il lungo periodo di lavoro in remoto dettato dalla necessità di
far fronte al lockdown imposto per contrastare la pandemia da
Covid-19, lo smart working verrà adottato come formula “normale” sia
in ambito privato, sia a livello istituzionale.
Durante questa fase di sperimentazione forzata, tutti i soggetti
coinvolti si sono resi conto dei vantaggi legati alla recisione del
vincolo di presenza sul posto di lavoro, riassumibili in un
miglioramento della qualità della vita dei lavoratori (soprattutto in
termini di tempo di vita) e di un conseguente aumento di produttività.
Se la previsione di una adozione massiccia della formula è
condivisibile, il suo attraversamento richiede però di superare un
equivoco: quello che milioni di lavoratori italiani hanno sperimentato
in questi lunghi mesi non è affatto uno “smart working”. Si è trattato
infatti di semplice “lavoro in remoto”, qualcosa di molto meno
complesso (e meno innovativo) di ciò che rappresenta in realtà lo
smart working. Con il lavoro in remoto, infatti, ci si limita a
“spostare” la postazione di lavoro dall’ufficio al domicilio del
lavoratore. Una trasformazione, quindi, che impatta soltanto sul
luogo, ma non sulle modalità della prestazione e che è caratterizzata
dalla stessa rigidità di un’attività tradizionale.
Il concetto di smart working, invece, è per sua natura flessibile e
consente di variare le modalità dell’attività lavorativa su più
fronti: sia in termini di orario, sia in termini di luogo in cui si
opera. Il tutto, però, lasciando al lavoratore stesso la possibilità
di scegliere come, dove e quando prestare la sua attività.
Insomma: un vero smart working non si traduce esclusivamente nella
predisposizione di strumenti di accesso in remoto, ma in una vera
riorganizzazione dei tempi e dei modi del lavoro, attraverso la
creazione di un ecosistema che deve consentire la massima libertà a
chi presta il suo lavoro.
Corollario di questa declinazione del “lavoro agile” è che lo smart
working non consente, come alcuni sembrano avere inteso cogliendone
solo i vantaggi economici, di smantellare la dimensione fisica
dell’ufficio. Ne richiede piuttosto una rimodulazione, con
caratteristiche diverse. Lo smart worker, infatti, avrà comunque
bisogno di un luogo fisico in cui confrontarsi con i colleghi o
collaborare faccia a faccia. Questo luogo fisico però dovrà avere
caratteristiche diverse da quelle a cui siamo abituati, mettendo per
esempio a disposizione sale meeting attrezzate per le videoconferenze,
strumenti avanzati di Unified Comunication e Collaboration (UCC),
infrastrutture progettate (anche a livello di cyber security) per
consentire accessi in remoto e in mobilità.
Insomma: siamo di fronte a una situazione in cui ci sono tutte le
premesse perché il passaggio allo smart working diventi realtà.
Ma dobbiamo avere la consapevolezza che non basta fornire un computer
portatile ai lavoratori e spedirli a svolgere i loro compiti in
salotto. La sua declinazione pratica richiede impegno, investimenti e
pianificazione.
Soprattutto, richiede un salto evolutivo a livello culturale.
Soprattutto in quei settori, come la Pubblica Amministrazione, che
hanno storicamente una tendenza a essere refrattari ai cambiamenti.
L’augurio è che tutto questo possa accadere. Rapidamente.

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